LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
   Ha  pronunziato  la  seguente  ordinanza sul ricorso iscritto al n.
 4909 del ruolo generale affari civili per l'anno  1997,  proposto  da
 Napolitano  Elena,  Napolitano  Giuseppe, rappresentati e difesi, con
 procura speciale in calce al ricorso, notificato il 16  maggio  1997,
 dagli  avv.ti  Umberto Nidiaci e Walter Testa, domiciliatario in Roma
 alla via Achille Papa n. 21, ricorrenti;
   Contro il comune di Barberino di Mugello, in  persona  del  sindaco
 pro-tempore,   rappresentato  e  difeso,  con  procura  in  calce  al
 controricorso, notificato il 16 maggio 1997, dall'avv. Paolo  Golini,
 con  il  quale  elettivamente  domicilia  in  Roma alla via delle Tre
 Madonne,  16,  presso  lo  studio  dell'avv.  prof.  Roberto   Nania,
 controricorrente  per  la  cassazione  della  sentenza della Corte di
 appello di Firenze del 3 novembre 1995, depositata col n.  187  il  1
 marzo 1996;
   Udita,  nella  pubblica udienza del 2 luglio 1998, la relazione del
 consigliere Enrico Papa;
   Sentito  l'avv.  Casotti  Contatore,  delegato,  che   ha   chiesto
 accogliersi il ricorso;
   Sentito  il  p.m.  dott.  Ennio  Attilio Sepe, che ne ha chiesto il
 rigetto.
                           Premesso in fatto
   Con citazione del 30 marzo 1991, Caterina Cafulli convenne  davanti
 alla  Corte  di appello di Firenze il comune di Barberino di Mugello,
 per  la  determinazione  delle  indennita'  di  espropriazione  e  di
 occupazione  legittima  di  un suo fondo (in n.c.t. di quel comune al
 fol. 77, part.  42, 60, 61, 64, 65, 66, 94 e 95),  gia'  destinato  a
 discarica  comunale;  sulla contestazione dell'Ente - che affermo' la
 congruita' delle somme offerte -, rimessa  all'esito  dell'istruzione
 la   causa   al  collegio,  il  procuratore  dell'attrice  dichiaro',
 all'udienza del 18 marzo 1994, la morte della parte, ed  il  processo
 venne, con contestuale ordinanza, interrotto.
   Riassunto  dagli  eredi  Elena  e  Giuseppe Napolitano, con ricorso
 depositato il 18  novnbre  1994,  e'  stato  dichiarato  estinto  con
 sentenza  del 3 novembre 1995, depositata col n. 187 il 1 marzo 1996,
 avendo  ritenuto,  la  Corte,  l'eccezione  ritualmente  proposta   e
 superato  l'ulteriore  difesa  degli  attori, circa la decorrenza del
 termine di sei  mesi  per  la  riassunzione,  fissato  nell'art.  305
 c.p.c.,  da  un  momento  successivo  a  quello  della  dichiarazione
 dell'evento interruttivo,  ed,  in  particolare,  dalla  accettazione
 dell'eredita'.
   Per  la  cassazione  della sentenza ricorrono i Napolitano, con due
 motivi.
   Resiste il comune con controricorso, illustrato da memoria.
   II - Considerate le posizioni difensive contrapposte:
    col  primo  mezzo  i  ricorrenti  denunziano  violazione  e  falsa
 applicazione  di norme di diritto ai sensi dell'art. 360 n. 3 c.p.c.,
 in relazione agli artt. 300, 301, 305, 307 c.p.c., e 3 e 24 Cost.
   Sotto    un    primo    profilo,   lamentano   l'erroneita'   della
 interpretazione dell'art. 305 c.p.c., seguita dal giudice a quo,  che
 il  termine  per  la  riassunzione ha inteso far decorrere dalla data
 dell'interruzione:     richiamando   gli   interventi   della   Corte
 costituzionale in ordine agli artt. 301 e 300, e, segnatamente, Corte
 costituzionale  n. 159/1971, affermano ancora l'impossibilita' di una
 decorrenza del termine anteriore al  sorgere,  in  capo  ai  soggetti
 chiamati   a   proseguire   il  processo,  "del  potere  di  esperire
 validamente l'azione", che, coincidendo col momento  della  delazione
 dell'eredita',  si  sarebbe in realta' verificato in epoca successiva
 alla   dichiarazione   del   procuratore   (precisamente,   con    la
 pubblicazione del testamento, intervenuta il 16 aprile 1994).
   Pertanto, dopo aver puntualizzato gli inconvenienti connessi ad una
 diversa  interpretazione,  lamentano la disparita' di trattamento che
 si verificherebbe rispetto ai casi di morte  della  parte  costituita
 personalmente, ovvero di morte del procuratore - nei quali il termine
 per  la  riassunzione decorre, a seguito degli interventi della Corte
 costituzionale, dalla conoscenza legale del fatto interruttivo -,  da
 cio' traendo la conclusione della mancanza di fondamento normativo ad
 un  preteso obbligo, per il difensore, di "avvertire parti da lui non
 conosciute ne', quanto meno, facilmente conoscibili ed in  tempi  non
 determinabili".
   Onde,  per  il  caso  di  mancato accoglimento dell'interpretazione
 proposta, dopo aver richiamato Corte  cost.  n.  220/1986,  formulano
 eccezione  di  incostituzionalita' del combinato disposto degli artt.
 305 e  300  c.p.c.,  per  contrasto  con  gli  artt.  3  e  24  della
 Costituzione,  ipotizzando  disparita'  di trattamento fra situazioni
 simili nonche' lesione del diritto di difesa.
   Sotto un secondo profilo, richiamata la disciplina  dell'art.  307,
 comma  4  c.p.c.,  deducono  che e' mancata l'eccezione di estinzione
 "prima di ogni altra  istanza  o  difesa",  avendo  l'Ente  appellato
 formulato il rilievo unicamente in via conclusiva, nella comparsa per
 il  collegio  (al punto 4, ove "infine si segnala all'ecc.mo collegio
 la tardivita' della riassunzione del processo" per di  piu'  "facendo
 riferimento  alla  data  della  notifica  del  ricorso con pedissequo
 decreto di fissazione dell'udienza, notifica avvenuta il  30  gennaio
 1995  anziche' alla data di presentazione del ricorso stesso", con la
 conseguenza che il giudice a quo sarebbe incorso in extrapetizione.
   Col  secondo  motivo,   deducono   un   corrispondente   vizio   di
 motivazione, in relazione ai riportati profili. Da un lato, lamentano
 che  erroneamente il giudice a quo avrebbe riferito la prospettazione
 degli attori in riassunzione al momento  dell'accettazione  e  non  a
 quello  della  delazione dell'eredita', ed, ancor piu', contestano la
 ritenuta congruita' del termine  semestrale  per  il  compimento,  da
 parte dei chiamati - i quali potrebbero addirittura ignorare la morte
 del  dante  causa  -, di tutte le operazioni successorie, comprensive
 della nomina del difensore, attraverso  cui  proseguire  il  processo
 interrotto.
   Dall'altro,   contestano   l'affermazione  della  Corte,  circa  la
 richiesta  "in  via  prioritaria"  d'estinzione,  che,  nella   parte
 dispositiva  della  comparsa,  precede  le  altre  unicamente perche'
 trattasi di  istanza  "in  rito",  laddove,  nella  parte  narrativa,
 l'andamento globale delle difese e' quello gia' considerato.
   Oppone   il   controricorrente  comune  l'infondatezza  delle  tesi
 difensive   avversarie.    Afferma    infatti    l'esattezza    della
 interpretazione  seguita dal giudice di merito in ordine all'art. 305
 c.p.c.,  arricchendola  di  rilievi  e  richiami   giurisprudenziali;
 ribadisce   poi   di   aver   formulato  ritualmente  l'eccezione  di
 estinzione. In particolare, osserva che  la  disposizione  "non  puo'
 essere  ragionevolmente  interpretata  nel  senso  che l'eccezione di
 estinzione debba essere formulata all'inizio del primo atto difensivo
 prodotto  dalla  parte  interessata  a  farla  valere";  puntualizza,
 inoltre,  che  l'eccezione  e' stata espressa dopo aver richiamato le
 date della dichiarazione dell'evento interruttivo, del  deposito  del
 ricorso  e  della  notifica  di  esso  col  pedissequo decreto, senza
 riferirsi esclusivamente a quest'ultima.  Esclude,  conseguentemente,
 ogni collegato vizio di motivazione nella sentenza impugnata.
   III.  - Tanto premesso e considerato, ritiene il collegio rilevante
 e  non  manifestamente  infondata  la   questione   di   legittimita'
 costituzionale  della  normativa  richiamata, con le precisazioni che
 seguono, avuto riguardo alla prospettazione dei ricorrenti.
   Invertendo, per ragioni di  pregiudizialita'  logica,  l'esame  del
 duplice  profilo del primo mezzo, e' agevole osservare che il secondo
 non potrebbe essere accolto, giacche', ferma la natura  di  eccezione
 processuale  in  senso stretto, quella di estinzione del processo non
 richiede formule sacramentali, essendo necessario e  sufficiente  che
 risulti  proposta  in  forma  esplicita (Cass. n. 316/1992) ed in via
 pregiudiziale (Cass. n. 4286/1980), vale a dire prima di  ogni  altra
 difesa (v. anche Cass. nn. 6286/1995, 7323/1994).
   Orbene,   nella  ricordata  comparsa  conclusionale,  il  convenuto
 dedusse (p. 5, n. 4) la tardivita' della riassunzione, puntualizzando
 le date delle singole attivita' processuali,  a  cui,  espressamente,
 quella  del  deposito  del  ricorso, onde, fermo restando l'esplicito
 collegamento col termine perentorio per la riassunzione (in relazione
 al deposito stesso, e non alla successiva  notifica),  concluse  poi,
 "in  rito",  vale  a  dire  in via pregiudiziale, con la richiesta di
 dichiarazione d'estinzione del processo ai sensi dell'art 305  c.p.c.
 (ivi,  p.  6).    Con  la  conseguenza,  negativa  per  i ricorrenti,
 agevolmente arguibile.
   Il restante (primo) profilo finisce per incentrarsi sulla questione
 di legittimita' costituzionale, la cui soluzione soltanto, nel  senso
 auspicato  dai  ricorrenti,  potrebbe  far  sorgere, in una eventuale
 articolazione successiva, la problematica -  agitata  invece  in  via
 principale   -   circa  la  possibile  incidenza,  sulla  fattispecie
 estintiva, del potere di proseguire il processo in capo  a  chi  puo'
 "esperire  validamente  l'azione".  Il  sistema posto in discussione,
 infatti, e' proprio quello della decorrenza del  termine  perentorio,
 per  la riassunzione, dalla dichiarazione o notificazione dell'evento
 interruttivo (art.  300  comma  2  c.p.c.),  indipendentemente  dalla
 statuizione  -  meramente  dichiarativa  -  del  giudice  (Cass.  nn.
 5029/1998,  6721/1996),  stante  l'automaticita'  del  corrispondente
 effetto,  che  non  richiede  la  conoscenza  -  la quale verrebbe ad
 atteggiarsi invece come premessa necessaria della stessa problematica
 - da parte dei soggetti destinati a subentrare nel processo.
   La questione medesima sembra, al collegio, oltre che rilevante - in
 virtu' dei rilievi piu' sopra svolti -, non manifestamente infondata.
   La  Corte  costituzionale,  nell'occuparsi di tale questione (sent.
 n. 136/1992) con riguardo al fallimento di  una  parte,  ha  ritenuto
 l'art.  305  c.p.c. non in contrasto con l'art. 24 Cost., la' dove fa
 decorrere il termine per  la  riassunzione  dall'interruzione  e  non
 dall'effettiva  conoscenza  dell'evento  interruttivo  ad  opera  del
 curatore fallimentare, argomentando  dalla  cd.  ultrattivita'  della
 rappresentanza  processuale  rispetto  all'evento  medesimo, ai sensi
 dell'art. 300 c.p.c.,  cui  ha  considerato  sotteso  l'obbligo,  non
 espresso  nella  regola  processuale  ma desumibile dagli artt. 1728,
 comma 1 e 1710, comma 2 c.c., di rendere noto ai soggetti,  ai  quali
 spetta  proseguire  il  processo,  l'evento medesimo, concordando con
 essi la correlativa dichiarazione.
   Ha cosi' ritenuto che l'eventuale  inadempimento  di  quell'obbligo
 costituisca solo un inconveniente pratico, cui non e' rapportabile un
 vizio  d'incostituzionalita'  della  norma  -  sotto  l'aspetto della
 violazione  del  diritto  di  difesa  -,  poiche'   la   legittimita'
 costituzionale  "va  apprezzata in funzione della corretta osservanza
 dell'ordinamento giuridico complessivo  e  non  delle  possibili  sue
 violazioni",  laddove  l'inconveniente  medesimo  risulta prevenuto e
 represso dal sistema sanzionatorio, nella sede disciplinare, a carico
 del procuratore inadempiente, nonche' dalla risarcibilita' del  danno
 da  lui  eventualmente cagionato ai soggetti cui incombeva l'onere di
 prosecuzione del processo.
   Pare al collegio che la verifica di costituzionalita' in esame, nei
 limiti di rilevanza della questione proposta, sia stata  condizionata
 dalla  peculiarita'  dell'evento  considerato (fallimento), che rende
 difficilmente  ipotizzabile  un  curatore  fallimentare  ignaro   dei
 processi  in  corso  ed  un  procuratore  del fallito che ometta ogni
 informativa circa gli  sviluppi  della  vicenda  processuale,  in  un
 contesto,  oltre  tutto,  caratterizzato  dalla  persistente presenza
 dell'interessato, in  grado  di  assumere  iniziative  dirette  anche
 presso   gli   organi  della  procedura  concorsuale.  Ma  la  stessa
 peculiarita' non sembra consentire il superamento  delle  difficolta'
 di  una  costruzione,  in  via  generale,  nei  termini  riportati, e
 consiglia di riproporre, con riferimento al caso  della  morte  della
 parte   costituita,  la  questione,  sotto  il  duplice  profilo  del
 contrasto con l'art. 24  e,  correlativamente,  con  l'art.  3  della
 Costituzione.
   A) Sotto il primo profilo, appare dubbia l'effettivita' del diritto
 di  difesa  per  coloro cui spetta proseguire il processo, in caso di
 intervenuta  interruzione,  trattandosi  di  soggetti   estranei   al
 processo  stesso,  tenuti  nondimeno a compiere attivita' processuali
 entro un termine perentorio, la cui decorrenza risulterebbe garantita
 da posizioni subiettive esse pure estranee al processo.
   Nell'  ambito  del  rapporto  processuale,  che  si  potrebbe  dire
 "esterno"  siccome riguardante la parte, il giudice e le altre parti,
 l'evento  interruttivo  che  colpisce  la  prima  e',  di  per   se',
 irrilevante,  poiche' rientra nel diritto potestativo processuale del
 procuratore darne - con dichiarazione che, pur  essendo  di  scienza,
 assume  portata  negoziale,  richiedendo  la  volonta'  dell'effetto,
 appunto,  interrruttivo  (cosi'  Cass.  nn.   5391/1990,   2506/1989,
 2837/1987,   e,   fra   le   piu'  recenti,  Cass.  n.  3431/1998)  -
 comunicazione all'udienza ovvero  mediante  notifica,  ai  sensi  del
 comma  1  dell'art. 300 c.p.c. e con le conseguenze fissate nel comma
 2, secondo valutazioni da  compiere  nell'esclusivo  interesse  della
 parte colpita dal ripetuto evento (Cass. nn. 5156/1998, 13041/1995).
   Da  cio'  deriva  che, mentre, nel caso di omessa dichiarazione, il
 rapporto esterno resta immutato (senza che quello  interno  venga  in
 alcun  modo  ad  incidere sulla dialettica del processo), allorquando
 tale dichiarazione sia intervenuta, in assenza di  qualsivoglia  atto
 processuale   riguardante  i  soggetti  destinati  a  subentrare  nel
 processo,  nei   cui   confronti   il   termine   perentorio   inizia
 immediatamente  a  decorrere,  risulta  indispensabile  l'aggancio al
 rapporto "interno", tra procuratore  costituito  e  subentranti  alla
 parte  incisa  dall'evento  interruttivo.   Aggancio indispensabile -
 che, nella prima alternativa,  si  ravvisa  nella  cd.  ultrattivita'
 della  procura (v. per tutte Cass. nn. 4237/1997, 7704/1996), secondo
 valutazioni  tuttavia  non  incidenti  sui  concreti  meccanismi  del
 processo -, ma non per questo appagante.
   Difatti,  l'apprezzamento  di legittimita' della norma con riguardo
 all'ordinamento  giuridico  nel  suo   complesso,   pur   costituendo
 affermazione di un principio incontestabile, non sembra consentire la
 giustapposizione  della  disciplina sostanziale a quella processuale,
 attesa la peculiarita' delle regole attinenti  al  processo,  la  cui
 caratteristica  di norme "strumentali" ne comporta l'autosufficienza,
 trattandosi  di  disposizioni  che  (chiamate  a  regolare  posizioni
 subiettive  di  onere),  in  caso  di  inosservanza, contengono in se
 stesse  l'attuazione  delle   conseguenze   giuridiche,   di   regola
 consistenti  in  preclusioni  o  -  come  appunto nel caso in esame -
 decadenze, senza percettibili modifiche del mondo "fenomenico",  come
 invece  normalmente  avviene per le norme di diritto sostanziale - la
 cui attuazione (relativa invece a posizioni subiettive  di  obbligo),
 nel  momento  sanzionatorio, anche quando avvenga in forma specifica,
 implica pur sempre una qualche modifica di tal fatta -.
   Talche', dal punto di vista processsuale, non potra' negarsi che il
 procuratore della parte venuta  a  morte,  resa  la  dichiarazione  e
 provocato  l'effetto interruttivo, non riveste piu' alcun ruolo, onde
 nel processo si verifica un evidente  iato,  che  impedisce  di  dare
 (autosufficiente)  ragione dell'inizio della decorrenza di un termine
 decadenziale a carico di soggetti  i  quali  non  risultano  tuttavia
 raggiunti  da  alcun  atto  processuale  - aspetto, quest'ultimo, che
 nella citata Corte cost. n. 136/1992 appare superato col  considerare
 la  sola  posizione del subentrante convenuto in riassunzione, in una
 prospettiva ex post, forse non idonea a superare il rilievo -.
   Sotto  l'aspetto  sostanziale  (del  rapporto  cd.   interno),   ad
 ulteriori  perplessita' da' luogo la soluzione prospettata, la quale,
 mentre  relega  al  rango  di  inconveniente   pratico   la   mancata
 informativa  del  procuratore  verso coloro che dovrebbero subentrare
 all'originario  mandante,  fa  assurgere  (attraverso   il   richiamo
 all'art.  1728  c.c.)    le  ipotesi di prosecuzione del processo fra
 quelle in cui sarebbe per definizione configurabile il "pericolo  nel
 ritardo",   in  definitiva  confermando  la  tendenza  a  salvare  la
 regolarita' del rapporto esterno attraverso la disciplina dettata per
 quello interno (al qual proposito non va tralasciato che  il  mandato
 potrebbe  intercorrere  anche  tra  procuratore  e  terzo  e  che  il
 procuratore medesimo, in base alle istruzioni ricevute, potrebbe aver
 agito, nel rendere autonomamente la  dichiarazione  dell'evento,  nel
 rispetto degli obblighi impostigli dall'art. 1710 c.c.).
   E, sotto tale ulteriore riguardo, il sospetto d'incostituzionalita'
 appare  semmai  ricevere  riscontro:  sostenere  che  la  tutela  del
 soggetto chiamato  a  proseguire  il  giudizio  e'  assicurata  dalla
 responsabilita'       civile       (per       inadempimento)      del
 procuratore-mandatario, oltre che  da  quella  disciplinare  di  lui,
 significa  far  ricorso  ad  una  forma  di protezione per cosi' dire
 indiretta, assicurata, cioe', non - come sembrerebbe dover  essere  -
 "nel"  processo, bensi' attraverso disposizioni volte a riequilibrare
 e sanzionare la (gia' intervenuta) lesione  del  diritto  di  difesa,
 resa   possibile   dallo   stesso  complessivo  sistema  delle  norme
 processuali, che avrebbe dovuto autonomamente garantirlo.
   B) Nella medesima prospettiva, sotto il profilo dell'art.  3  della
 Costituzione,  e'  agevole  poi  osservare  che,  mentre le parti non
 colpite dall'evento interruttivo, dal momento della  dichiarazione  o
 della  notificazione, hanno legale conoscenza (per il contumace, arg.
 art.  292 comma 3 c.p.c.) dell'interruzione, e possono usufruire  per
 intero  del  termine  semestrale  per  la  riassunzione,  cio' non si
 verifica per colui (o coloro) cui spetta proseguire il processo.
   Difatti, persino ipotizzando un previo accordo con  il  procuratore
 della  parte  venuta  a  morte,  circa  la  dichiarazione ex art. 300
 c.p.c., non potra' negarsi che, essendo  la  conoscenza  legata  alla
 dichiarazione  medesima, l'informativa seguira' necessariamente in un
 momento successivo, col  pericolo  di  consumazione  parziale  di  un
 termine  processuale,  in  posizione  deteriore  rispetto  alle altre
 parti.
   In tali termini rettificata la prospettazione dei ricorrenti  nella
 formulazione  della  relativa  eccezione,  ritiene  il  collegio, sul
 premesso  accertamento  di  rilevanza  di  essa,  non  manifestamente
 infondata  la  questione di legittimita' costituzionale del combinato
 disposto degli artt. 305 e 300 c.p.c., per violazione degli artt.  24
 e  3  della  Costituzione,  la'  dove prevedono che, in caso di morte
 della parte costituita, il termine perentorio  di  sei  mesi  per  la
 riassunzione    decorra   dalla   interruzione,   e,   cioe',   dalla
 dichiarazione o dalla notificazione dell'evento interruttivo ad opera
 del procuratore, e non dalla conoscenza dell'interruzione medesima in
 capo ai soggetti destinati a subentrare nel processo.